Razzismo istituzionale

Definizione di razzismo istituzionale

Significato

Si parla di razzismo istituzionale quando politiche, norme e prassi amministrative perpetuano, rinforzano o producono la disuguaglianza e il malessere sociale di minoranze svantaggiate.

La Commissione MacPherson – incaricata di indagare l’eventuale presenza di comportamenti pregiudiziali e discriminatori della polizia britannica verso la popolazione di origine straniera – utilizza la seguente definizione di razzismo istituzionale:

““quel complesso di leggi, costumi e pratiche vigenti che sistematicamente riflettono e producono le disuguaglianze nella società. Se conseguenze razziste sono imputabili a leggi, costumi e pratiche istituzionali, l’istituzione è razzista sia se gli individui che mantengono queste pratiche hanno intenzioni razziste, sia se non le hanno. […] [Sono istituzioni razziste] strutture, politiche, processi e pratiche organizzative che, spesso senza intenzione o consapevolezza, determinano che le minoranze etniche siano trattate in modo ingiusto e meno ugualmente”[1].

Il criterio di identificazione delle istituzioni razziste riguarda quindi gli effetti discriminatori prodotti, non le intenzioni dell’ente o dei suoi funzionari. Ciò significa che per determinare il razzismo di un’istituzione non è necessario che i funzionari abbiano pregiudizi e finalità oppressive o che vi sia un’esplicita ideologia razzista: basta che una certa legge, una politica, una pratica vigente di fatto crei, perpetui o aggravi la disuguaglianza di minoranze etniche, culturali, religiose o nazionali.

Storia

A coniare e diffondere l’espressione institutional racism furono Stokely Carmichael e Charles Hamilton, grazie al loro libro-manifesto Black Power. The Politics of Liberation in America. Secondo le loro analisi esiste un razzismo individuale che si manifesta quando individui bianchi feriscono o offendono dei neri; si tratta di un razzismo palese, visibile, che «può essere ripreso dalla televisione», e per questo è facilmente riconosciuto e rigettato dalla maggioranza delle persone. Poi vi è un’altra forma di razzismo, quello istituzionale, che “è meno esplicita, più sottile, meno smascherabile attraverso l’identificazione di specifici responsabili; ma non è meno distruttiva dell’altra. Deriva dal meccanismo delle forze costituite e rispettate dalla società e perciò è esposta molto meno della prima alla pubblica condanna”[2].

E per esplicitare ancor meglio le due tipologie di razzismo, gli autori forniscono un esempio particolarmente efficaci:

Quando i terroristi bianchi lanciano una bomba in una chiesa negra uccidendo cinque bambine, commettono un atto di razzismo individuale, largamente deplorato da una grandissima parte della società. Ma quando in quella stessa città, Birmingham nell’Alabama, non cinque ma cinquecento bambini negri muoiono ogni anno per mancanza di cibo adeguato, di un tetto e di assistenza medica, mentre migliaia di altri sono maltrattati e distrutti sul piano psichico, emotivo e intellettuale a causa di condizioni di miseria e discriminazione in cui la comunità negra è costretta a vivere, allora si può parlare di razzismo istituzionalizzato[3].

La pluralità di campi in cui si manifesta la discriminazione e la loro nefasta sinergia danno vita ad un sistema razzista fortificato e dagli effetti dirompenti. Tuttavia la potenza del razzismo istituzionale non corrisponde affatto ad una sua vistosità, la sua forza sta proprio nell’essere difficilmente percepibile e dunque raramente deprecato.

Sinonimi e uso

Il razzismo istituzionale viene denominato anche razzismo di Stato a causa del fatto che è perpetuato da organi, agenti e funzionari dello Stato, oppure come razzismo democratico poiché ne sono responsabili non solo i regimi totalitari e dispotici, ma anche gli stati democratici che operano delle deroghe ai principi di uguaglianza e giustizia che li vincolerebbero. Altro nome per lo stesso fenomeno è razzismo sistemico dal momento che, mediato da leggi e istituzioni, riesce a permeare l’intera struttura sociale articolandosi nell’urbanistica delle città e arrivando ad inquinare perfino l’intimo delle sue vittime.

Non è raro infatti il caso di persone vittime di discriminazione che sposano le tesi dei loro oppressori. In questo caso si parla di razzismo interiorizzato, che forse è la più estrema conseguenza del razzismo istituzionale.

L’espressione “razzismo istituzionale” si può intendere in un senso stretto riferendosi a tutti quei casi in cui norme, politiche e prassi istituzionali generatrici di una cronica iniquità danneggiano gruppi identificati in base al criterio della “razza”. Oppure si può utilizzare in un senso più esteso, che è quello maggiormente in uso, indicando un sistema di esclusione e ineguaglianza che discrimina le persone a causa della loro nazionalità, etnia, religione e cultura.

In un senso amplissimo si può parlare di razzismo istituzionale per intendere quella forma di disparità sistemica che colpisce qualsiasi categoria sociale che soffre le conseguenze di una strutturale discriminazione, ad esempio: gli abitanti di scialbe periferie dove i bambini lasciano troppo presto la scuola, dove si fatica a trovare un lavoro appena decente e dove il welfare più efficiente è quello predisposto dalla criminalità organizzata, ma pagato al vergognoso prezzo della collusione e della violenza; disabili e anziani, costretti ad esistere ed agire in un mondo non pensato per includerli, un mondo fuori misura e barricato che ne spreca il talento e ne intralcia il vivere quotidiano; i precari, derubati di sostanze, certezza e serenità, resi così disponibili, sostituibili e senza alcun potere contrattuale; le donne che si trovano in grande copia nei ruoli sociali subalterni o decorativi, ma che sono scandalosamente occasionali sulla ribalta; gli omosessuali, le cui unioni non sono benedette né dagli amministratori delle faccende celesti, né dai legislatori di questa terra.


[1] W. MacPherson, The Stephen Lawrence Inquiry: Report of an Inquiry by Sir William MacPherson, Cm. 4262-I (London, 15-2-1999), § 6.30.

[2] S. Carmichael, C.V. Hamilton, Strategia del potere nero, Laterza, Bari 1968 [op.orig. Black Power. The Politics of Liberation in America, Random House, New York 1967], p. 38.

[3] Ivi, pp. 38-39.

 

 

10 fattispecie di razzismo istituzionale italiano

[da Clelia Bartoli, Razzisti per legge. L’Italia che discrimina, Laterza, Bari-Roma 2012]

Le dieci fattispecie che segnalo vanno da quelle più vicine al razzismo individuale, in cui è presente un’esplicita intenzione discriminatoria, a quelle di carattere più sistemico, i cui effetti discriminatori possono prodursi anche senza un’intenzione consapevolmente perseguita, bensì per omissione, negligenza, miopia progettuale o come effetto collaterale. È opportuno ricordare che la gravità del razzismo istituzionale non va misurata guardando alle intenzioni di chi lo ha prodotto, ma giudicando l’entità dei danni che determina. Pertanto, anche se gli atti di razzismo espliciti e deliberati sono quelli più facilmente condannati, non è detto che siano i più gravi, anzi proprio perché facilmente biasimabili e sanzionabili sono i meno pericolosi.

 

I.       Azioni e dichiarazioni razziste o lesive dell’immagine dei migranti da parte di autorità e uomini delle istituzioni. Esternazioni razziste e xenofobe da parte di leader politici o uomini delle istituzioni sono da considerarsi forme di razzismo istituzionale e non meri casi di razzismo individuale perché il comportamento delle autorità produce emulazione e legittima intolleranza e violenza. A tal riguardo viene in mente Calderoli che a Lodi fece passeggiare un maiale su un terreno destinato alla costruzione di una moschea, Borghezio che spruzzò disinfettante sui passeggeri extracomunitari di un treno, il sindaco di Treviso Gentilini che in un suo comizio dichiarò: «Voglio la rivoluzione nei confronti di nomadi, degli zingari. Ho distrutto due campi di nomadi e di zingari a Treviso. Voglio eliminare tutti i bambini degli Zingari che vanno a rubare dagli anziani. Voglio tolleranza a doppio zero»[1]. Ma a sortire effetti deleteri non sono solo i discorsi xenofobi in stile Bar Sport degli arringatori d’assalto della Lega Nord; forse più preoccupanti, per la presa che hanno sulla maggioritaria opinione pubblica moderata, sono le dichiarazioni compite e di scientifica parvenza come quelle fatte da Letizia Moratti nel maggio 2010. L’ex-sindaco di Milano, in una conferenza presso l’Università Cattolica, sostenne: «Un clandestino se è clandestino normalmente delinque».

II.      Atteggiamenti pregiudiziali, discriminatori e razzisti di funzionari ed agenti garanti di diritti o erogatori di pubblici servizi. Sebbene sia poco studiata in Italia, questa tipologia di razzismo istituzionale è la prima a cui si pensa nel mondo anglosassone. I britannici hanno presente i numerosi pestaggi e decessi in custodia di appartenenti a minoranze etniche per i quali è stato indagato il personale di polizia. Mentre nell’accademia, come nelle chiese nere o nei talk-show statunitensi non è raro che l’attività di sentencing delle Corti sia considerata viziata dal pregiudizio: i giudici – in maggioranza bianchi, protestanti e middle class – sarebbero inconsapevolmente più severi e prevenuti nei confronti di imputati afroamericani, latinos o working class. Come testimoniano diverse agenzie che monitorano il razzismo in Italia (Unar, 2004-2011; Naletto, 2009), se un insegnante ritiene che i figli degli immigrati siano un disturbo e non meritino la stessa attenzione dei giovani autoctoni, l’istruzione pubblica funzionerà peggio per gli alunni di origini estere. Se un medico crede che un extracomunitario possa attendere più a lungo degli altri in un pronto soccorso, il diritto alla salute di quel paziente sarà compromesso. Se un avvocato chiamato al gratuito patrocino non si spende nella tutela di un migrante contando sulla poca conoscenza della lingua e della legge italiana del suo cliente, il diritto di difesa rimarrà lettera morta. Se il conducente di un autobus tira dritto quando vede alla fermata solo persone di colore, se il personale agli sportelli di uffici pubblici tratta con modi offensivi e sbrigativi gli utenti stranieri, quei servizi non saranno fruiti equamente da una popolazione che ne ha uguale diritto. Anche in questo caso il comportamento offensivo, pregiudiziale o discriminatorio di singoli individui è considerato una forma di razzismo istituzionale, se si tratta di persone che garantiscono un diritto sancito o un pubblico servizio.

III.       Regolamenti, ordinanze e provvedimenti di amministratori locali esplicitamente o velatamente xenofobi. Negli ultimi anni diversi governatori, sindaci, assessori e consiglieri si sono fatti promotori di norme e politiche apertamente o indirettamente xenofobe, contando presumibilmente sul consenso elettorale che potevano fruttare. Molte di queste disposizioni vengono rapidamente bocciate dai tribunali competenti, dal momento che contrastano con il principio di uguaglianza e con le leggi contro le discriminazioni razziali e xenofobe; nondimeno tali provvedimenti vezzeggiano il complesso di superiorità degli autoctoni, legittimando la rivendicazione di privilegi. Viste, però, le frequenti bocciature di provvedimenti platealmente discriminatori, alcuni amministratori hanno introdotto delle formule meno esposte al vaglio censorio dei tribunali: ad esempio, al posto di escludere da determinati servizi ed aiuti gli stranieri, si stabilisce che i beneficiari siano coloro che vantano una lunga residenza sul territorio, penalizzando non formalmente, ma nei fatti la popolazione migrante. Tuttavia, dato che il razzismo istituzionale si deve valutare in ragione degli effetti di iniquità realmente prodotti anche se collaterali, formule che indirettamente possono colpire gruppi marginali necessitano pur sempre di un controllo approfondito per prevenire il potenziale discriminatorio. Volendo fare degli esempi: Adro, Palazzago, Tradate ed altri comuni con giunte leghiste hanno stabilito che il «bonus bebé», un contributo economico per i nuovi nati, venisse erogato solo ai bambini con almeno un genitore italiano. Il sindaco verde padano di Alzano Lombardo – allo scopo di ripopolare di «autentici italici» il centro della cittadina – ha proposto sgravi fiscali solo alle giovani coppie italiane che decidevano di risiedervi e ha vietato il parcheggio ad auto di stranieri. Ma non solo amministrazioni settentrionali e leghiste promuovono questo genere di provvedimenti. A Lucca, nel 2009, una giunta di centrodestra ha approvato un regolamento che vieta gli esercizi commerciali ove si venda cibo «riconducibile ad etnie diverse». Le crociate contro i lavavetri sono state ideate e perseguite ostinatamente da sindaci di centrosinistra nelle città di Firenze e Bologna. Inoltre amministratori di ogni colore e regione istituiscono, chiudono, dislocano la popolazione rom e sinti sull’onda dei malumori della cittadinanza, senza troppa cura per i beni e la dignità dei soggetti interessati, né per la salute, l’educazione e la sicurezza dei bambini che vi abitano (infra, § 3.4).

  1. Produzione di leggi nazionali che comprimono i diritti della popolazione straniera residente, che diffondono un immotivato allarmismo e rinforzano un’immagine negativa e stereotipata del migrante. La legge Bossi-Fini, che ha modificato il Testo Unico sull’immigrazione, prevede che un cittadino extracomunitario che si trova nel suo paese di origine, per poter entrare regolarmente in Italia e soggiornarvi, deve essere già in possesso di un contratto stipulato con un datore di lavoro che presumibilmente non lo ha mai conosciuto. È scontato che ben pochi assumono a scatola chiusa o fanno reclutamento all’estero, dunque, la stragrande maggioranza delle volte le cose non vanno come la legge prevede. La normativa, istituendo una procedura irrealistica, obbliga gli immigrati a trascorrere un periodo di tempo senza documenti prima di potersi regolarizzare attraverso un decreto flussi, per il quale si finge di non essere ancora giunti in Italia, o usufruendo di una sanatoria. Dal momento quindi che la clandestinità è attualmente la fase preliminare della gran parte delle storie di immigrazione e che nella clandestinità ci si ritorna facilmente e ripetutamente, data la restrittività dei criteri per il rinnovo del permesso di soggiorno, risulta altamente pericolosa tutta quella produzione legislativa che comprime o addirittura lede i diritti fondamentali degli immigrati irregolari. Oltre alle questioni connesse alle norme relative al permesso di soggiorno e alla clandestinità, molte sono le leggi affette da razzismo istituzionale, tra cui particolarmente grave è la disciplina relativa alla cittadinanza italiana (infra, § 2.6).
  1. Politica estera che inficia i diritti fondamentali dei migranti o che ingerisce negativamente sulla situazione di certi paesi inducendo la popolazione a migrare. Ogni stato sovrano ha diritto a proteggere i propri confini e a promuovere l’interesse nazionale, tuttavia ciò dovrebbe esser fatto nel rispetto dei diritti umani. La politica estera italiana volta al controllo dell’immigrazione clandestina ha spesso comportato gravi violazioni dei diritti fondamentali degli stranieri, come nel caso dei respingimenti in Libia (infra, «Casi italiani», cap. I). Ma oltre a questo genere di interventi per il controllo delle frontiere, rientrano pure nel razzismo istituzionale relativo alla politica estera azioni e ingerenze su altri paesi, dannose per coloro che vi abitano. Si pensi ad esempio alla responsabilità dell’Italia nell’insediamento e nella tenuta di regimi dispotici come quelli di Geddhafi e Ben Alì. Inoltre reca un serio danno lo scarso controllo governativo o addirittura l’avallo sull’operato di alcune aziende italiane in paesi emergenti: parecchie sono le inchieste che denunciano la vendita di armi da fuoco prodotte in Italia, attraverso procedure legali e illegali, a dittatori, gruppi terroristici o in zone di guerra (Beretta, 2010; Gallo, 2011). È poi carente un efficace monitoraggio e un’appropriata informazione sulle attività dell’Eni. L’Ente nazionale idrocarburi, che nei suoi spot millanta di portare sviluppo, istruzione e rispetto in molte aree della Terra, pare sia complice di una devastazione ambientale che attenta alle fonti di reddito e alla salute degli abitanti del Delta del Niger (Amnensty International, 2009). Similmente non è stato sufficientemente indagato e represso il fenomeno dello sversamento illegale in Somalia di rifiuti tossici prodotti da ditte italiane (Greenpeace, 2010). Dunque, da una parte il governo sbarra l’ingresso agli immigrati, dall’altra alimenta le cause che spingono ad emigrare insidiando il benessere economico, politico ed ecologico di diversi paesi in via di sviluppo. In altre parole è come se per contenere l’ebollizione si mettesse il coperchio alla pentola e contemporaneamente si alzasse il fuoco.

 

  1. Cattiva qualità tecnica della normativa relativa all’immigrazione: norme presto dichiarate incostituzionali, produzione convulsa di leggi affette da un’elevata presenza di antinomie e lacune, eccessivo ricorso ai decreti, alle circolari e allo stato d’emergenza. Non è solo il contenuto delle norme relative all’immigrazione a produrre conseguenze discriminatorie, ma, in modo più surrettizio e capillare, è la loro cattiva qualità tecnica ad incidere negativamente sulla vita degli immigrati. Va dapprima segnalato che un numero statisticamente elevato di leggi che disciplinano la condizione dello straniero sono state annullate dalla Corte Costituzionale e altre, dopo fervido annuncio, non sono state varate presagendo certa bocciatura. Ciononostante queste non-leggi rilasciano degli effetti sull’immaginario e sulla vita concreta della gente. Ad esempio, la mera proposta legislativa di obbligare il personale sanitario a denunciare i clandestini ha ridotto significativamente, talvolta con conseguenze fatali, il ricorso dei migranti irregolari alle cure mediche. Ma è soprattutto il fatto che in Italia le politiche migratorie si esplichino mediante un permanente stato d’emergenza e una sovrabbondante produzione di decreti e circolari ad alimentare l’incertezza del diritto dello straniero, assecondando l’arbitrio, l’approccio poliziesco e l’abuso di potere nelle pubbliche amministrazioni. Come spiega Iside Gjergji (2010: 444-445): «Ai soggetti e ai segmenti della popolazione, la cui esistenza è prevalentemente determinata e scandita mediante circolari amministrative, vengono di fatto negate, in primis, tutte quelle garanzie formali e procedurali (e, di conseguenza anche sostanziali) che l’ordinamento giuridico riconosce – generalmente e astrattamente – a tutti. Si tratta, insomma, di soggetti ‘gestiti’ e ‘tutelati’ da un sottosistema normativo di tipo amministrativo che, in quanto tale, non può che fornire una pseudo-protezione giuridica».
  1. Ingerenza di una burocrazia lenta, cangiante e complicata nella vita degli extracomunitari residenti in Italia. Coloro che non sono cittadini dell’Unione Europea e che intendono vivere in Italia risiedendovi legalmente hanno necessità di passare dall’astrusa, lenta e incerta procedura per ottenere il permesso di soggiorno. Il testo unico sull’immigrazione all’art. 5, comma 9 prevede che il permesso venga rilasciato in un tempo massimo di 20 giorni, nei fatti le amministrazioni impiegano diversi mesi per produrre il documento e non sono rari i casi in cui il permesso arriva già scaduto, quindi dopo un anno o due. Una burocrazia farraginosa non è semplicemente una seccatura per cittadini e non, essa può aggravare la precarietà esistenziale e compromettere i diritti di chi soffre di una fragilità sociale. Le conseguenze sugli stranieri sono, poi, particolarmente onerose poiché essi devono ricorrervi continuamente: oltre all’autorizzazione per vivere alla luce del sole nel Bel Paese, molti dei passaggi rilevanti nella vita di una persona – come studiare, lavorare, aprire un’attività, curarsi, sposarsi, vivere vicini alla famiglia, viaggiare, affittare o acquistare una casa – sono per un extracomunitario estremamente complessi a causa della mole suppletiva di documenti, marche, timbri, tasse, condizioni e veti che è loro imposta. Ad esempio un ragazzino cresciuto in Italia figlio di immigrati può essere costretto a rinunciare al viaggio di istruzione all’estero con i suoi compagni perché gli uffici della questura tardano a rinnovargli il permesso di soggiorno. Un genitore straniero può restare diviso per lunghi anni dai suoi figli a causa della ristrettezza delle condizioni richieste per i ricongiungimenti familiari, per la difficoltà a reperire informazioni corrette e per i tempi di espletamento delle pratiche (infra, «Casi italiani», cap. III). I migranti, a causa della difettosa burocrazia italiana, sono quindi obbligati ad un maggior esborso di denaro, un maggior impiego di tempo e ad un’impossibilità progettuale in attesa che documenti e permessi vengano vagliati, approvati, vidimati o respinti.
  1. Forme di organizzazione istituzionale che producono sia tra gli utenti che tra gli operatori disfunzioni, conflitto e devianza. Quando atteggiamenti pregiudiziali o razzisti si manifestano con frequenza all’interno di una determinata istituzione o quando in un certo contesto, prodotto da scelte politiche e amministrative, accadono frequentemente casi di conflitto tra diversi gruppi etnici o episodi di autolesionismo significa che occorre guardare al sistema (infra, cap. IV). Ad esempio, se un giudice ha un sovraccarico di lavoro sarà più facilmente vittima della scorciatoia fornita dal pregiudizio. Se un istituto penitenziario è sovraffollato e in pessime condizioni è prevedibile che vi saranno episodi di abuso da parte degli agenti di custodia o di bullismo tra i detenuti ai danni dei soggetti più deboli, spesso immigrati o tossicodipendenti. Se i richiedenti asilo, che non di rado hanno subito traumi devastanti e torture, vengono relegati in centri asettici e periferici, negando loro la possibilità di lavorare, dovendo attendere per mesi – nell’ansia e nella noia – il verdetto della commissione circa la possibilità di restare in Italia, non sarà strano che si diffonda l’alcoolismo e numerosi siano i tentativi di suicidio (infra, Casi italiani», cap. IV). Se la popolazione rom è continuamente soggetta a sgomberi o collocata in aree senza forniture e vicino a grandi arterie stradali non stupirà che vi saranno numerosi incidenti di cui finiscono vittime per lo più i bambini (infra, § 3.4). Quindi un’organizzazione poco accorta, una formazione carente o inappropriata di funzionari ed agenti, una segregante gestione degli spazi esercita effetti fortemente negativi sulle persone coinvolte, siano essi migranti, comuni cittadini o esponenti delle istituzioni.
  1. Politiche scolastiche, abitative, lavorative, ecc. che indirettamente hanno effetti sulla popolazione migrante. Scelte politiche che non hanno come oggetto la popolazione di origine straniera possono comunque avere importanti conseguenze sugli immigrati e sui loro figli, tanto su un piano materiale quanto simbolico. Ad esempio, una riduzione del tempo-scuola ha in primo luogo un impatto sulla possibilità di impiego delle donne e, in particolare, di quelle che non hanno risorse per ricorrere a strutture private e che non possono contare sul sostegno della famiglia. Ciò spinge molte madri straniere alla dolorosa scelta di far crescere i figli lontano: affidandoli ai nonni rimasti al paese d’origine o in convitti in Italia. Politiche abitative e interventi urbanistici che tendono a perimetrare lo spazio, separando nettamente i contesti residenziali dalle aree popolari dove si concentra il disagio, hanno spesso l’effetto di far germinare depressione e violenza in chi è relegato nella periferia, di stigmatizzare chi vi abita, di fomentare i conflitti tra fazioni diverse di marginali, ad esempio tra il ceto povero autoctono e quello immigrato o tra bande di ragazzi di diversa provenienza (infra, § 3.5). Il ricatto imposto dalla condizione di irregolarità, unitamente a policy del lavoro poco lungimiranti, carenza di controlli, relazioni di corruzione e compiacenza tra una politica affaristica e imprenditori spregiudicati, alimentano in Italia il lavoro schiavistico, come quello che migliaia di migranti svolgono nelle campagne, nei cantieri, nei capannoni industriali e pure presso alcune famiglie (Santoro, 2010).
  1. Carenza e precarietà degli interventi sociali di cui usufruisce la popolazione migrante. Le fasce sociali più deboli, costituite sia da indigeni che da migranti, pagano a caro prezzo il fatto che gli interventi destinati a combattere le disuguaglianze e a promuovere l’inclusione sociale non abbiano in Italia la forma di servizio stabile, ma di traballante progetto eternamente precario. I fondi disponibili, poi, sono sempre scarsi o mal gestiti, i primi ad essere tagliati dalle finanziarie. Nello specifico, si segnala che il Fondo nazionale per l’inclusione sociale degli immigrati, istituito dalla legge 296/2006, con la manovra finanziaria del 2008 è stato azzerato e non più ripristinato. Quel denaro sarebbe dovuto servire a tutelare i minori non accompagnati e le donne immigrate a rischio di marginalità, a incentivare l’accoglienza degli alunni stranieri, l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda e diversi percorsi di inclusione. Se non vi sono risorse per istituire corsi di italiano (nonostante se ne chieda la conoscenza come requisito per ricevere il permesso di soggiorno Ce, art 9, comma 2-bis d. lgv 286/1998), se negli ospedali, nelle scuole e negli uffici pubblici mancano i mediatori culturali, se l’integrazione dei minori stranieri è affidata a progetti che durano pochi mesi, terminati i quali i ragazzi si ritrovano abbandonati o se non vengono pagati gli operatori che combattono la tratta, sostenendo le prostitute nel percorso di denuncia e di uscita dal giro, è scontato che la sbandierata intenzione politica di promuovere l’integrazione degli stranieri parta sconfitta. La povertà di risorse per il terzo settore e la precarietà di coloro che vi sono impiegati inficia fortemente la possibilità di risolvere i problemi sociali, di sanare disuguaglianza e discriminazioni e, nello specifico, rende più difficoltosa una gestione virtuosa dell’immigrazione.

[1] Il discorso venne tenuto ad un evento organizzato dalla Lega Nord, svoltosi a Venezia il 14 settembre 2008. Per queste e altre dichiarazioni Gentilini è stato condannato con l’accusa di istigazione all’odio razziale il 26 ottobre 2009 dal Tribunale di Venezia. Avverso alla sentenza, l’imputato ha proposto appello.

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